La gola di Juukan

Nel mondo continuano a persistere atteggiamenti e comportamenti che coincidono con l’indifferenza o talvolta giustificano una presunta disattenzione, intesa come evento marginale, rispetto alla tutela di beni naturali e artistici, che rendono preziosa e unica la storia di questo pianeta.

Se da un lato la distruzione di opere d’arte attiene alla cancellazione di un’opera dell’ingegno di un altro uomo, nella devastazione della natura, si rivela la spregevole essenza dell’umanità nei confronti di un bene irriproducibile, impossibile da sostituire e da immaginare.

Così come dobbiamo al clima e all’ambiente la nostra massima attenzione in un atteggiamento di “scambio” per il benessere collettivo, la stessa considerazione va riservata nei confronti di quei beni comuni che segnano e coltivano la memoria del pianeta, la sua mutabilità, la sua creazione e in questo caso anche la cultura dell’uomo.

La distruzione dell’area archeologica e naturale della gola di Juukan in Australia è una perdita per tutta l’umanità, una sconfitta per la nostra conoscenza e la nostra memoria.

A cazzo di cane.

Ci chiudono in casa due mesi, non succede sostanzialmente nulla. Prima ci dicevano “è tutto a posto” e poi muoiono più di ventimila persone. Poi Boris Johnson veniva deriso e adesso puntiamo all’immunità di gregge perché in fondo, Boris, aveva solo spoilerato.
Quindi, in definitiva, apriranno tutto e continueremo ad ammalarci a caso.
Abbiamo perso soldi, lavoro e amicizie, ci siamo spaventati, prosciugato le riserve di lievito, farina e uova. Abbiamo rinunciato a tutte le nostre abitudini, aperto al controllo della nostra privacy, pagato a vuoto assicurazioni e abbonamenti, acquistato garze per mascherine a 70€ l’una, ci siamo rotti i coglioni con decine di video chiamate, pubblicato ogni singolo orrido angolo della nostra casa, cantato dai balconi, solidarizzato con Zingaretti, pianto per Sepùlveda, ascoltato ogni sera Sallusti, cazziare De Luca, ci siamo fatti dare lezioni di igiene da Barbara D’Urso, abbiamo scoperto che si può scampagnare sui tetti e lo abbiamo fatto per niente.
Grazie Italia, #andràcomesempreèandata
A cazzo di cane

Uomini dal sapore forte

Uomini dal sapore forte

In treno ho provato sulla mia pelle, anzi sul mio naso, che l’essere umano può arrivare a puzzare in milioni di tonalità agre, diverse, alcune ancora non classificate e può farlo ogni giorno. Uomini che riescono ad essere il tuo primo malessere del giorno.

Nuance innaturali che vanno dal polpo bollito al curry dolce e piccante, dalla mortadella al salamino in stagionatura fino ad arrivare al classico piscio in camicia.

È una vita difficile quella del profumo sul treno, riuscire a coprire un odore speziato è un’impresa non facile. Ancora più difficile è quella del naso, con le narici che pizzicano manco avessero degli habanero chocolate poco più sotto.

Odore di castagne al fuoco, cantavano i “cugini di campagna”, odore di frittata al forno canterei io.

Come si fa ad emettere odore di polpo bollito alle sei e dieci del mattino? Doccia mancata? Pigrizia da sapone? Shampoo troppo caro? Uomo che aspetta altro uomo nella doccia con fare minaccioso? Vestiti usati per coprire le pozzanghere al fine di far attraversare graziose ragazze? E l’alito? Cazzo hanno fatto alla bocca? Non c’è stato il ritiro dell’umido?

Non lo so. 
Fatto sta però che iniziare la giornata con i conati di vomito non è proprio il massimo.

E sta arrivando la primavera e già sento il fresco profumo di natura animale.

“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione” diceva Josè Saramago, sottintendendo, a mio avviso, che il ricordo più vivido che ne resta, probabilmente, è l’olezzo.

Sta arrivando la primavera, e già sento il fresco profumo di natura, sì, ma da animale in libertà.

Pendolare senza ritorno a Roma

Pendolare senza ritorno

Conoscete quella sensazione che si prova a nascere in una terra che non offre alcun collegamento veloce con il resto della nazione? Ecco quella curiosità che vi coglie, guardando film, tv e persino notiziari, dove pendolari per amore, per lavoro o semplicemente per vivere, passano un po’ del proprio tempo su un treno.

Beh, prima di lasciare la Sicilia avevo sempre immaginato, forse sognato, un giorno, di vivere il viaggio come esperienza del quotidiano, insomma, sognavo di fare il pendolare.

Lo anticipavo qui, adesso ve lo racconto.

Se anche voi, come me, siete nati al sud, anzi in Sicilia, allora leggendo questo post, capirete bene di cosa parlo. Di come ci si immagina il mondo, di come si muova questo mondo che noi chiamiamo “continente”,  come ad indicare la distanza tra lui e tutto ciò che sta fuori dalla nostra regione. 

Quello che non potevo immaginare, pur essendo un tipo “informato” è che in realtà, dietro alla vita del pendolare si nascondono nervosismi che neppure lontanamente possono essere condivisi da chi, per lavoro in particolare, non è costretto ad utilizzare il mezzo pubblico di una grande città.

Quando stavo a Palermo, immaginavo queste giornate che scorrevano scadenzate dal ritmo del treno, giornate che nascevano e morivano con i titoli di coda, un fischio in lontananza e una paletta sul cielo. Immaginavo che alla fine sarebbe stato comodo spostarsi senza doversi preoccupare del parcheggio, del parcheggiatore e dei parcheggianti. 

Credevo, illudendomi, che per compiere un tragitto, avrei impiegato il tempo necessario; arrivare a piedi, salire e scendere dal treno.

Per carità, avevo sempre ipotizzato che quella del pendolare fosse una vita di sacrifici enormi. Sapevo che almeno in termini di tempo rinunciasse, per dire, ad un ora di sonno, di famiglia, di libertà, per compiere il “viaggio”. Uno spostamento necessario per tutti, ma che lo avrebbe portato in prossimità del luogo di lavoro senza alcuna altra preoccupazione. Allo stesso tempo pensavo alla mia di vita, passata ad urlare, controllarmi sui fianchi e divincolandomi dal cretino di turno. Guidando nervoso e stressato sotto il peso traffico.

Pensavo dunque che ci potesse essere un’alternativa felice a quelle cose che noi, al sud, in genere, facciamo in auto o al massimo, con l’auto di un altro e comunque entro tempi ragionevoli, posteggiando, nel bene e nel male, in prossimità dell’ingresso di qualsiasi luogo.
Ecco. Queste cose così. 

Quello che non mi aspettavo sono le incognite lungo il tragitto. Naturali, per carità, ma che fossero superiori alle certezze, quello no. Che ne so, ero convinto di prendere il treno delle 6.20, mi aspettavo di arrivare alle 7.35 a destinazione, compiendo appunto, quell’ora di tempo (chiaramente per il mio caso) che mi serviva, secondo fonti ufficiali, a percorrere il tragitto casa-lavoro e viceversa al ritorno.

Era appunto pensiero. Poi c’è la realtà. Quella che scopro ogni giorno.
E allora, giusto per rendervi partecipe di ciò che significa essere pendolare da queste parti, vi racconto qualcosa di ciò che è successo nell’arco di un mese, percorrendo il tragitto che porta da Orte a Fiumicino, lungo la linea ferroviaria e poi da Tiburtina a Piazza di Spagna, attraverso la linea metropolitana.

Intanto, per comprendere meglio questa storia, è giusto sapere che all’interno della città di Roma ci si può muovere, oltre con i tradizionali Bus e Tram insieme a tre linee metropolitane, la A, B e C ma anche treni urbani chiamati FC ed FR che fanno tappa in alcuni punti della città e della provincia (per approfondire qui ci sono informazioni utili ) anche con le auto in sharing.

Me cojoni! Starete pensando voi. L’ho pensato pure io mentre scrivevo il paragrafo precedente e l’ho pensato pure per quasi quarant’anni quando nella capitale, ci venivo da viaggiatore occasionale. E lo penserei ancora sapendo che a Palermo ci si continua a muovere prevalentemente con mezzi propri nonostante la nuova grande ztl ed il “magnifico” tram. 

La prima cosa che ho imparato a mie spese, è che un orario non vale un orario. E non intendo la differenza tra ora di punta e l’altra, parlo proprio di ore in termini di spreco di tempo. Scegliere l’orario giusto infatti, è strategicamente determinante per la sequela di eventi che potrebbe capitarvi. L’ora che stimavo necessaria via via è diventata il doppio e non perché sia stato scarso nel calcolarla, bensì perché un imprevisto tipo, in territorio romano, vale almeno un’ora di ritardo sulla tabella di marcia. 

Fermata ponte lungo - pendolari

Ammesso che vi vada bene ciò che farete nel tentativo di rimediare.
Se vedete difatti gente per roma che sembra sul punto di cagarsi addosso, in realtà, sta solamente compiendo uno dei riti quotidiani di migrazione casa-lavoro.

E no, a Roma non c’é una grande “evacuazione” di massa, ve lo confermo. Chiappe strette, per diminuire l’attrito e zaino incollato al corpo. Si corre, corriamo, superando chiunque, pure noi stessi ormai schiacciati dal passo successivo.  Si corre, come se fosse l’ultima volta che facciamo qualcosa o appunto come quando, quel qualcosa, potrebbe farci passare un brutto momento.

Sembra tutto stereotipato, raccontato per scrivere e riempire due righe, eppure, vi giuro, è veramente così, sempre, ogni giorno. Roma è una nuova Milano, inghiottita dal suo grigiore e ormai, con le sue paure. 

Una volta qui, ci si abitua, neanche te ne rendi conto. Pure ioche vengo dalla terra della lentezza, dove la pausa caffè prevede la pausa ammazzacaffé, che prevede un quarto d’ora per la sigaretta. Anch’io cammino all’ultimo sorpasso di una vecchia, una giapponese in preda ad un raptus da selfie, un turista in preda al calzino impigliato sulla fibbia della ciabatta.

L’incognita infatti è sempre l’umano più avanti. Il tragitto casa-lavoro è un episodio di “Fast and Furious” ma a piedi con il turbo a nitrocaffeina. Siamo costretti dai tempi. Se perdiamo la corsa, chissà cosa può capitarci più appresso.

So bene che ciò che scrivo può sembrare uno sproposito. Ma giuro che in questo brevissimo lasso di tempo, ho avuto modo di sperimentare che un’ora, è soltanto una cifra, una stima che mi sento di riportare a seguito di una media di calcolo fortunata. 

Mi è altresì capitato che un pomeriggio, improvvisamente, i treni, abbiano smesso di funzionare per tre ore e che, ancora più inspiegabilmente, sullo stesso binario, unico in quel tratto, transitassero in orario, manco fossero quelli speciali del Dvce, i treni “Leonardo express”, che muovono i passeggeri dalla stazione Termini a Fiumicino senza fermate intermedie. 
Un mistero.

I passeggeri più maligni paventavano astratti contratti e clausole di rimborso per i viaggiatori ritardatari verso gli aeroporti muniti di biglietti di imbarco e dunque, di conseguenza, malevoli tentativi della compagnia ferroviaria di nascondere inefficienze della linea urbana, dietro improbabili guasti. Sono voci e le riporto come tali, senza alcuna prova e senza alcun oggettivo riscontro. 

Fatto è però, che pareva assai strano che un binario bloccato da un treno guasto, fosse allo stesso tempo funzionante per un altro treno. Assai strano ripeto.
Mentre ero li intanto, nessuno era in grado di spiegare in modo razionale la cosa, men che meno il personale delle ferrovie che in queste occasioni passa in modalità “aereo” o per capirci meglio, Messina Denaro che nel momento in cui lo becchi sta già in modalità Provenzano. 

PendolariUn’omertà insopportabile, utile soltanto ad accrescere la rabbia e lo svilimento per situazioni imprevedibili, e ci sta, e continue, e qui mi incazzo.
E quando uno si incazza, crede più’ facilmente ai complotti. Pure quando non sono supportati da niente e a proporli sono dei pazzi. E la voglio prendere larga.

Già, perché il giorno prima la stessa tratta era stata colpita da un presunto fulmine che ne avrebbe interrotto la corrente, causando, nel pomeriggio poi, avrebbe causato disagi. Guasti successivi, verificatesi nello stesso orario in giorni diversi, sempre dopo le 17, come quando transitavano soltanto i “Leonardini”.  Coincidenze, per carità. Ma quando uno è incazzato…

Casi, imprevedibili, come quello accaduto ancora il giorno precedente della stessa settimana, quando una gelata, oh una gelata eh, ha bloccato i treni del mattino facendoli ritardare di trenta minuti ciascuno. Pensate cosa direbbero gli svedesi di noi.

E casi, prevedibili, come il venerdì della settimana precedente, quando uno sciopero sindacale ha rallentato tutto il sistema di mobilità pubblica senza una via d’uscita.

Capii dopo perché nei giorni precedenti lo sciopero, sentivo un vociare continuo dalla quale usciva sempre la parola ferie. Ferie ovunque, udivo quella parola come si sente natale a dicembre. Ci si preparava ed io non capivo. Arrivato il giorno, compresi il motivo di quel tanto discutere. Chi poteva se ne stava a casa, al calduccio. Senza preoccuparsi e senza doversi preoccupare di sopperire alla negligenza, non di chi ha il diritto di scioperare, sia chiaro, ma del resto.

Una mobilità scassata ed indispensabile per muoversi all’interno di una ztl che non ti permette di accedere al perimetro cittadino, rintanati, manco fossimo sotto l’assedio dei barbari.

Barbari a cui auguro di non avere disabilità, perché sappiano che quasi tutte le scale mobili della città sono guaste, anzi, “out of order” come amano scrivere qui, fuori servizio.

Come quelle che conducono da piazza di Spagna al parcheggio di villa Borghese, che tanto vale lasciare l’auto direttamente sotto casa che farsi un chilometro sottoterra facendosi scalinate che manco a Sanremo o come quelle che crollarono nel pre-partita di una partita della Roma, che causarono qualche ferimento e il sequestro dell’intera fermata “Repubblica” di cui non si hanno notizie se non che è stata “momentaneamente soppressa”.

Per non parlare dei misteri della linea metropolitana B, unico caso al mondo di cinque minuti d’attesa che diventano dieci, manco fosse un panificio col pane in forno, ma anche l’unico caso che conosco di stazione che non annuncia ai passeggeri in attesa che è inutile che aspettino in banchina perché un guasto, un altro, ne ha bloccato le corse da più’ di venti minuti.

Che poi se non fosse che si viaggia schiacciati come sardine, che ti scippano, che ti spingono, che tutto puzza come una conceria del maghreb, alla fine i mezzi che offre Roma sarebbero anche utili.

E va bé, ammetto di essere polemico.
Polemico al punto da cambiare ogni mattina la tratta, manco fossi Paolo Villaggio in Fantozzi, alla ricerca di un minutaggio ottimale e ottimizzato, per percorrere la tratta casa-lavoro, cercando di sprecare il meno possibile un patrimonio di minuti che di solito amo dedicare alla colazione.

Eh no. Non me la merito la colazione in questa città. Perché a Roma auguriamo di non fare la stupida la sera, ma è la mattina che dovrebbe evitare di fare la zoccola. Ah le zoccole. Che belle le zoccole sulla salaria. Le vedo ad ogni ora del giorno, quando, bloccato nel traffico, ci teniamo compagnia.

Ma lo so, lo so, che le grandi città sono piene di problemi. L’ho sempre saputo, Palermo è grande, non grande grande, quanto Roma, ma grande. Ma pure Parigi è grande, e non ho mai sentito Parigini lamentarsi che la mattina spariscono i treni senza alternative per andare a lavoro.

Eh no. Forse si lamentano in francese, i francesi.

P.s.
Il pezzo é stato scritto tra un’attesa e l’altra, in ogni caso, o sui treni o in stazione. Il tempo c’è stato.

“Stranger scary”: sopracciglia pericolose

"Stranger scary": sopracciglia pericolose

Secondo uno studio che ho ultimato questa mattina, pochi minuti fa, anche in questo istante, la forma delle sopracciglia “innaturali”, vorrei dire anche sovrannaturali ma in realtà soltanto sovra cerebrali, rende le espressioni delle persone stupide.

Alle volte anche eccessivamente stupide e pure stupite.

Nel mio caso poi, le trovi sul treno Orte-Fiumicino quando per tutta la tratta, ti accorgi che qualcuno, insistentemente, ti osserva con fare stupito. Tu cerchi di capire, indagare e nel frattempo ti fai delle domande. Poi ti sovviene un’idea, qualcosa che non quadra c’è. Li osservi e sembrano il “Joker” interpretato magistralmente da Jack Nicolson nel “Batman” di Tim Burton. Solo che il sorriso ce l’hanno in fronte mentre le labbra stanno cucite. 

Allora pensi al fattore meno piacevole, c’hanno un problema diverso. Ma no! Si vede che non è un fattore involontario. Dietro c’è uno studio, una mano o forse due. Te lo dicono quei peli arrotondati, tirati, a volte smontati, visibili e impossibili da ignorare. Ti fanno pensare al peggio, ma sono già loro il peggio.

Insomma, c’è un problema di evidenza. Uno di quelli che dovrebbe essere tale anche al possessore di quegli sguardi di plastica che simulano opere d’arte contemporanea, da museo delle cere. Un’offerta al pubblico, spero gratuita, realizzata dal/dalla estetista, amica, amico, sorella, della signora e, ahimè, sempre più’ spesso del signore, difronte a me.

Un disegno che definirei non propriamente riuscito, anzi per niente.
Resta poco da fare dunque. Ormai è successo. Per il futuro però, se posso darvi un consiglio, se vi rispecchiate in questo scritto, fatevele due domande e cambiate estetisti. Se per voi è veramente troppo importante, proprio dovete, fate in modo che siano bravi, di quelli veri. Non fatelo da soli e non fatelo fare al primo parente o amico che passa. 

Smettetela di mozzarle, arcuarle, arrotondarle, etc etc, che poi appaiono modificate con gli strumenti “clipart” di word ’98. Non era bello vedere quegli obbrobri nei loghi fatti in casa, figuratevi in faccia.

Non siete proiettati in una puntata di “Stranger Things” con gli anni ’80 davanti. Siete in un treno che da Orte vi porta a Fiumicino e nella migliore delle ipotesi, state andando a lavorare. E non è bello lavorare quando Jack Nicholson ti osserva in modo inquietante e stupito. Figuratevi sul treno, quando vi siete alzati da dieci minuti ed il vostro astante non ha ancora preso neppure il primo caffè. 

E per gli uomini, che già dovrebbero evitare interventi sulle sopracciglia a prescindere, smettetela anche d’usare i “mennen’s” del supermercato ricevuti a natale degli anni ’90. Non è che per forza, dico per forza, siete tenuti ad usare un regalo. Non appestate l’aria. Il profumo serve ad inebriare, non sostituisce l’odore di capra con quello del wc.

Ma di questo parleremo più avanti.

A buon rendere. Buona giornata

Il problema evidente

La Sicilia è quella terra i cui abbiamo imparato a pronunciare il cognome Schweinsteiger e non riusciamo altrettanto, nonostante gli sforzi, con la parola ‘problema’.

É una cosa tipo la erre per i cinesi. Più ci sforziamo e più distorciamo.

Aggiungiamo lettere a caso, raddoppiamo e lo facciamo persino mettendo consonanti che dentro non ci dovrebbero proprio stare.

Purtroppo, altra parola difficile, per noi resterà sempre un pobblema, pronblema, poblema, promblema, va bé avete capito.

Ciao

Sul cadavere del mondo

sul cadavere del mondo

Sul cadavere del mondo.

I mediocri hanno già vinto. Sono ovunque, a testa alta, tra gli scaffali, tra i banchi, davanti ad un pubblico, ovunque ci sono loro a ritirare il premio.

Ed è inutile qualsiasi altro ragionamento, hanno già vinto; a tavolino, con la monetina, carta forbice pietra e pure nascondino.

Vincono sempre.

Regole di sopravvivenza all’ego

sopravvivenza all'ego

Sopravvivenza all'egoSe sui social vi piace pubblicare quotidianamente informazioni che vi riguardano, è giusto che rispettiate alcune regole fondamentali. Ve le elenco di seguito.

Regole di sopravvivenza all’ego:

1) se avete i capelli grigi non siete George Clooney;
2) un tatuaggio non vi rende Belen;
3) mostrare le cagate dei vostri figli non vi trasforma nella Montessori;
4) un paio di baffi non vi rende pornoattori anche nella prestazione, ricordatevi il resto del corpo;
5) essere bionde e basse non vi farà essere Shakira;
6) idem se castane ed alte alla Bellucci;
7) se indossate gli occhiali da sole per sembrare meno brutti, occultate anche il resto della faccia con un mefisto;
8) i selfie mentre limonate il vostro compagno/a non vi rendono innamorati, solo imbecilli;
9) fotografare aperitivi scadenti non vi rende automaticamente influencer;
10) se aspirate a diventare influencer non meritate amicizia. Soprattutto la mia;
11) e concludo.

Abitanti in verticale

Abitanti in verticale

L’uomo ad un certo punto della storia ha deciso di vivere in condominio.

La spiegazione della devoluzione umana sta tutta nella scelta, sbagliata, di condividere uno spazio.

Non siamo fatti per odorare i broccoli degli altri, assorbire le ascelle negli ascensori, svegliarci con l’ aspirapolvere del sabato mattina e ancor di più, non siamo pensati per convivere in verticale.

Non siamo cresciuti per vivere con altri uomini che scaricano dal cielo qualsiasi cosa gli passa per la mente.

Non siamo nati, per vivere schiacciati.

A provare fastidio ci vuole talento

Fastidi e talento

Quando stai per i fatti tuoi, ci sono tante situazioni che possono causare fastidi improvvisi.

Una scolaresca urlante che ti attraversa come un gregge belante, un tizio che ostina a parlare ad alta voce al cellulare in un luogo con poco campo oppure come succede spesso, entrare alla Feltrinelli con la musica di Mario Biondi sparata nelle orecchie.

Ecco, a me succede sempre tutto insieme, nella stessa giornata, negli stessi minuti, proprio quando cerco di evitarne almeno uno, subito in agguato, pronto l’altro.

Fino poi ad arrivare al tizio con l’ascella sudata che ti si piazza affianco, così per sfizio, nell’unica panchina occupata, di una piazza sconfinata.

Almeno non piove. Pensi.

Ma il cielo è sempre più cupo, presto arriveranno le gocce e con loro gli schizzi dai balconi e le botte degli ombrelli della gente che incroci mentre tenti un riparo lungo uno stretto marciapiede frantumato dalle radici e dal tempo.

E insomma, è così.

Un fastidio dietro l’altro, arrivare a sera, quando comodamente sul divano, proponi al tuo cervello la tv di rai uno, che per accenderla hai già dovuto aspettare che finisse la Littizzetto, per poi ritrovarti Marzullo.

Vabbuò, vado a letto.

Proprio mentre il vicino si accorge nel buio di quel mobile poco allineato, che giusto solo a quell’ora riesce a spostare.

E allora? E già mattino.